Giambattista Giraldi Cinzio's (1504-1573) advice on using rhyme in poetry:
Ho già io veduti, et veggio tutthora, alcuni, anzi molti (che pochi sono coloro che, o considerino questo, o se lo considerano, il mettano in opra) che, pure che le rime facciano quell’ultimo suono, par loro di haver compito tutto quello che intorno a ciò era bisogno; siano elle state proprie alla materia o no, significanti o no. Né pure questo vicio ho io notato negli scrittori minuti et di poca o nissuna vaglia, ma in quegli anco che sono, et sono stati, di qualche nome et si hanno pensato di immortalarsi con tali poemi, i quali, o per mancamento di giudicio, o per trascuraggine loro, o per loro ignoranza (che non vi mancano questi tali) hanno in guisa i lor romanzi composti, che la metà del verso, in gir verso la rima, non ha significato cosa alcuna, di modo che è paruto che quelle rime siano ivi come forestiere et come voci che non siano di quel componimento, ma paiono tolte (come sapete ch’io soglio dire) in presto od a pigione. Et queste sono di tanto fastidio e di tanta noia a chi legge con giudicio, che, ove deveriano con la loro consonanza essere grate e soavi, sono, non altrimenti che le corde d’un stromento male concordevoli insieme; le quali anchor che tocche facciano qualche suono, il fanno elle cosí noioso e spiacevole (per mancar loro il numero e la misura, che è quello in che consiste la buona armonia) che non si possono sentire. Et questo aviene nelle rime; perché l’orecchia che tuttavia aspetta quella ultima consonanza che armoniosamente le apporti il sentimento, trovandola vana et non propria alla cosa di che si scrive, ne resta, in vece del piacere ch’ella si aspettava di havere, fuor d’ogni credenza offesa, né l’orecchia solo, ma l’intelletto anchora, ch’aspettava di acquetarsi su la rima; et offerendoglisi ella vana, resta senza quel fine che egli ragionevolmente desiderava per compimento della sentenza. Il che aviene anco quando il poeta con parole vane et senza significatione empie il verso per far la rima. Et questo è quello che ci volle dir Horatio, quantunque parlasse delle compositioni latine, quando disse che non devea bastare al poeta di serrare il verso.Notes:
Non dee, adunque, il compositore de’ romanzi farsi servo delle rime, né delle parole. Ma far sì (come abbiam noi sempre cercato di fare nelle nostre composizioni), che le rime e le parole servano al concetto, non egli alle rime. Et dee usare ogni cura, perché come le voci sono state trovate per gli concetti et non i concetti perché servano ad esse, cosí le usi tali quali le ricerca il concetto, al servigio del quale deono esser poste insieme; che altrimenti facendo, si mostrerà il compositore di poco giudicio.
I have already seen and still see some [poets], indeed many (there are few who consider this or if they do consider it, put it into practice) that as long as the rhymes make the final sound, they think that they have done all that is needed, regardless of whether or not the rhymes are suitable or not for the subject-matter or whether or not they are significant. I have noticed this vice not only in the works of lesser writers and those of little or no merit, but also in those who are now and who have been of some repute and who have thought of immortalising themselves with such poems, where through their lack of sense or their want of care or their ignorance (of which there is no shortage) they have composed their romances so that half of the verse, including the rhymes, appears to have no significance, with the result that the rhymes sound like foreigners or like voices that do not belong to the composition but appear (as you know I am accustomed to say) to be loaned or rented. And these are so much bother and annoyance to those who read with discernment, that where they ought to be graceful and sweet with their consonance: they are not unlike the strings of a horribly out of tune instrument; which, when plucked makes some sound that is very dull and unpleasant (lacking the rhythm and the measure of which good harmony consists) that they cannot be listened to. And this occurs in rhymes: because the ear, which still expects a final consonance to harmoniously supply the feeling, finds it empty and inappropriate to what is written, and what remains in place of the pleasure one had expected to find, is affront beyond all belief, not to the ear alone, but to the intellect as well, which expecting to acquiesce to the rhyme is offended by its vapidness, and is left without that end which is reasonably desired to round off the meaning. This occurs also when the poet makes verses rhyme with empty and insignificant words. This is what Horace wanted to say, although he spoke of compositions in Latin, when he said that the poet ought to close off the verse.*
Therefore the composer of romances must not to be a slave to the rhyme nor the words. But (as we have always tried to do in our own compositions) the rhymes and the words ought to serve the concept, not the concept the rhymes. And one must apply every care so that words are found to suit the thoughts and not the thoughts that they might serve the words, and to use those words which seek the thought, in the service of which they ought to be joined together; as doing otherwise, one will reveal himself a versifier of scant judgement.
Giambattista Giraldi Cinzio, Discorsi intorno al comporre rivisti dall’autore nell’esemplare ferrarese Cl. I 90, ed. by Susanna Villari (Messina: Centro interdipartimentale di studi umanistici, 2002), pp. 108-9 [Intorno al comporre dei romanzi (1554)]. My translation.
*Horace, Serm. I.4.40-41 ‘neque enim concludere versum / dixeris esse satis’.